Per tanti anni ho lavorato alla Cantina Sperimentale di Noto come Dirigente Ricercatore. Tra i tanti progetti, ce n’era uno che curavamo con la Cantina Sperimentale di Milazzo e l’Università di Catania: la selezione clonale dei vitigni autoctoni. La linea guida era di ottenere cloni esenti da virus e di valutare sì la produttività, ma anche la qualità e la resistenza delle viti alle fitopatie.
Il mio lavoro consisteva in questo: dovevo andare nei vigneti, sopratutto di Nero d’Avola, e selezionare le piante che non presentavano sintomi di malattie. Per anni ho pattugliato i vigneti della zona, e più giravo più mi rendevo conto che, come in una società, in vigna era importante avere individui simili ma non uguali, perché ognuno apportava la sua unicità e dava ricchezza al prodotto.
Analizzando le piante mi accorgevo che questa molteplicità permetteva di avere nel tempo una maggiore costanza qualitativa, perché ogni individuo aveva una capacità diversa di difendersi. Quindi, se il fine della nostra ricerca era avere prodotti che caratterizzassero la tipicità e unicità della zona, capii che era più importante avere una molteplicità di individui, anche se non perfettamente sani, piuttosto che un clone unico, perfetto, sano e produttivo ma alla fine scontato.
Quando nel 1989 ricevetti in dono l’azienda avevo le idee ben chiare: volevo che le mie vigne fossero la voce di questa terra che abitiamo da 200 anni e per ottenere questo dovevo preservare la ricchezza all’interno delle nostre varietà. Se nei miei terreni si era sviluppata nel tempo una variegata popolazione di Nero d’Avola, mi dicevo, ci sarà un motivo. E allora, perché non valorizzarla? Decisi così di fare una attenta selezione massale nei nostri antichi vigneti di famiglia. Esclusi le piante palesemente malate o con difetti di produttività e diedi piuttosto la preferenza a piante che avevano produzione di grappoli ed acini di diversa grandezza, con forme anche diverse, con leggere differenze nell’epoca di maturazione.
In questo modo mi assicuravo una popolazione ricca che fosse quanto più possibile espressione della mia terra. Quindi fornii le marze al mio vivaista di fiducia per ottenere le viti da impiantare. Ero ben consapevole che questo metodo non era perfettamente in linea con le tecniche agronomiche consolidate, ma il mio sentire i miei vigneti andava al di là di quello che avevo imparato, io non volevo applicare solamente le nozioni tecniche, volevo di più: volevo lavorare anche col cuore.
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